Quello dell'insegnante è forse il lavoro più criticato di tutti i tempi.
C'è il solito luogo comune dei tre mesi di vacanza estivi, rimane salda la convinzione che il professore di pomeriggio non lavori e che ripeta a pappardella le solite cose per tutti gli anni della sua
Ancora, c'è chi pensa che se uno spende i soldi per laurearsi e poi va a fare l'insegnante, è perché, tutto sommato, è un po' sfigato e non ha trovato altro. Se poi si specializza per abilitarsi, insomma, vuol dire che ha proprio soldi da buttar via (sì, perché specializzarsi con i corsi universitari - la vecchia SSIS, quella frequentata da me, o i TFA - costa).
La verità? La maggior parte di coloro che fanno parte della mia generazione insegna perché ci crede veramente. E perché crede che non ci sia lavoro più bello dell'insegnamento, a dispetto dello stipendio non proprio principesco. C'è chi, come me, è approdato all'insegnamento dopo un cammino di maturazione personale e varie esperienze lavorative in altri ambiti. C'è chi si iscrive all'università già con le idee chiare, con la ferma volontà di fare l'insegnante.
Insegnare è un lavoro diverso da tutti gli altri. Non esiste la routine, ogni giorno è un giorno sé. Ogni mattina incontri la realtà degli altri, degli studenti, che, se sono adolescenti, sono spesso altalenanti nell'umore e nel comportamento. Bisogna farsi l'occhio, fotografare con lo sguardo la classe non appena si varca la porta e capire come bisognerà fare, per quell'ora. C'è la classe calma e la classe agitata, quella in cui è meglio imporsi di più, quella in cui è più opportuno essere pacati.
I ragazzi vanno conquistati e lo sa il cielo quanto questo, talvolta, sia difficile. Perché a volte non si fidano, o pensano che la scuola sia solo un voto e un continuo braccio di ferro con chi sta in cattedra.
Chi insegna ha una responsabilità enorme. Ha nelle sue mani il cervello degli alunni, e scusate se è poco. Deve trasmettere conoscenze, ma anche educare e, soprattutto, deve rendere capace lo studente di fare. "Insegnami a fare da solo", è il motto montessoriano, ma è il fine ultimo dell'insegnamento. Il più grande traguardo che un insegnante possa raggiungere è quello di portare i suoi studenti a una autonomia di pensiero, di renderli consapevoli che il mondo va letto criticamente e di fornire loro gli strumenti per essere critici.
A volte sembra di fallire. A fronte di tanto impegno, talvolta non arrivano risposte dagli studenti e allora l'insegnante si chiede come e dove sta sbagliando. Poi magari si scopre la chiave che apre il segreto di quella classe e, all'improvviso, tutto cambia. I ragazzi iniziano a lavorare, a incuriosirsi, a uscire da quel limbo di indifferenza nel quale avevano ciondolato fino a poco prima. Ecco, quando questo accade è una sorta di miracolo.
Vedere sguardi accendersi. Sentirsi dire "Prof., questo mi piace troppo". Sentire gli studenti ridere perché stanno leggendo Guareschi oppure stupirsi perché quello che ti sembrava distratto se ne esce con un approfondimento su Giacomo da Lentini. O commuoversi (giuro, mi è successo) perché lo studente che per mesi non ha mai, e dico mai, aperto un libro, all'improvviso sostiene un'interrogazione brillante e ti dice che ci tiene veramente ("Prof., mi guardi poco perché mi fa paura quando mi guarda, però so tutto"). E' questo il miracolo. Perché gli studenti se lo ricorderanno per sempre, si ricorderanno di essere stati felici di imparare. E forse, un giorno, avranno voglia di essere felici allo stesso modo, e allora studieranno ancora, e apriranno il loro orizzonte, oltre il telefonino, oltre le chat, oltre i videogames.
A quel punto l'insegnante sarà alle prese con altre classi e altre sfide, e quegli studenti saranno ormai diventanti uomini, ma quello che è stato, quelle ore in classe, saranno per sempre nel loro cuore e nella loro testa.
Ecco perché uno sceglie di fare l'insegnante.
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