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L'angolo di Don Camillo: La medicina

 


Foto By Salumificio Peveri 

Anche un passero è sempre un passero: però se un passero si posa su una trave di cemento che può portare, come massimo, tremila quintali e sette grammi e che ha un carico di tremila quintali e sette grammi, la trave si spacca.

Quando accadde la storia del cane, don Camillo si trovava, appunto, nella stessa situazione della trave di cemento: ecco tutto. 

Così inizia un altro racconto straordinario e intenso, tratto dall'Anno di don Camillo

Un incipit indimenticabile per spiegare un cedimento fisico e mentale di don Camillo, che crolla perché hanno pitturato di rosso il sedere del suo cane da caccia Ful. Ma poiché Ful è un cane molto intelligente, e si lascia avvicinare solo da due persone, don Camillo sa che, non essendo ovviamente lui l'autore del misfatto, l'unico responsabile dell'opera al minio può essere stato solo l'altro uomo di cui Ful si fida, e cioè Peppone. E questo per lui è un tradimento troppo grande da sopportare, in quel momento. 

Non ci dice Guareschi cosa avesse don Camillo. Ci dice solo che don Camillo, dopo un'accesa discussione con il sindaco, che nega ogni responsabilità, sviene in canonica, sbatte la testa e viene portato via in ambulanza. La gente non capisce come mai don Camillo se la sia presa tanto. 

"Un cane è un cane, perbacco!".
Ma era, invece, la storia del passero che fa crollare la trave di cemento

Passano venticinque giorni. Ful continua ad andare ogni mattina all'officina di Peppone. Si accuccia e resta lì a guardare Peppone per un paio d'ore, fino alle otto, ora in cui arrivano i clienti. Il cane che fissa è la coscienza tormentata del sindaco, che sa di averla fatta grossa, ma non sa come porvi rimedio. 

Una mattina, Peppone urla al cane: "Piantala di rompermi l'anima. Sta male, ecco tutto. Se vuoi saperne di più vallo a trovare!"
Il cane non si mosse di un millimetro e Peppone riprese il lavoro, ma quei due occhi maledetti se li sentiva addosso. 
Alle sette non ne poté più e corse a casa. Si ripulì, si mise il vestito della festa e, saltato sul sidecar, partì. 

Perché parte con il sidecar? Perché, fatti un paio di chilometri, Peppone si ferma e aspetta, facendo finta di controllare il serbatoio e le gomme. In realtà, aspetta la sua coscienza sotto forma di Ful, che salta sul carrozzino.

Arrivano all'ospedale. Peppone, lasciato Ful a guardia della macchina, prova ad entrare, ma non lo lasciano passare. E' troppo presto. In più, il malato è troppo grave per ricevere visite. Peppone non insiste. Non insiste perché, in realtà, lui vuole andare da un'altra parte. Si mise il vestito della festa, dice Guareschi. Non era necessario il vestito della festa per andare da un ammalato in ospedale. E Peppone sapeva benissimo che era troppo presto per entrare. 

E infatti arriva in Vescovado. Anche qui non vogliono farlo entrare, ma Peppone è irremovibile. Deve vedere il vescovo a tutti i costi.

"C'è un energumeno il quale dice di essere amico personale di Vostra Eccellenza" - gli spiegò il segretario. 

Il vescovo lo riceve. Peppone, dopo un breve scambio sulle condizioni disperate di don Camillo, per il quale sembra che ormai non ci sia più nulla da fare, esclama:

"Anche Lei, Eccellenza, può fare qualcosa! Una Messa speciale, per esempio!".

Il vescovo guarda con curiosità il sindaco comunista che chiede una Messa, ma Peppone, balbettando e stropicciando il cappello, vuota il sacco: "Eccellenza, cerchi di capirmi. Il cane l'ho pitturato io di rosso". 

Avvenuta la confessione, il Vescovo si reca con Peppone nella cappella in fondo al viale. Non vuole nessuno. Solo il sindaco. E il sindaco si offre di servire Messa, dato che da ragazzo "se la cavava bene". Ma che se le cavasse bene da ragazzo è una scusa, chiaramente. Peppone può innalzare così la sua preghiera per l'amico.

Messa speciale con chierichetto speciale - commentò il Vescovo. - Entri e chiuda la porta col catenaccio. Queste sono cose che dobbiamo sapere soltanto io e lei. E il buon Dio, naturalmente. 

 Peppone ha rimediato al suo errore, confessando al Vescovo il suo misfatto e ponendovi riparo. Dall'altra parte, il vescovo non lo umilia, non lo deride (un comunista che chiede la Messa!), ma lo accoglie e riconosce il suo intento. 

Adesso Peppone, affrontata e risolta la crisi di coscienza, è pronto per affrontare don Camillo. Infatti, quando arriva in ospedale, di nuovo non vogliono farlo passare, ma Peppone passa ugualmente. Lo accompagnano dal prete e lo avvisano che sarà ritenuto responsabile di qualsiasi cosa accada, visto che è entrato con la forza. 

Don Camillo è sdraiato nel letto, pallido, magro.

[Peppone] entrò in punta di piedi e si fermò al capezzale. Don Camillo aveva gli occhi chiusi e pareva morto.
Quando riaprì gli occhi, pareva vivo. 

Entra l'infermiera con una tazzina di roba e don Camillo la rifiuta: da venticinque giorni sempre la solita sequela di budini, pappine e creme. 

Peppone non sa più che fare: vuole rivedere di nuovo don Camillo in salute, ma tutto sembra inutile. Don Camillo chiude gli occhi e Peppone, dopo aver atteso un po', si muove verso l'uscita, quando don Camillo gli tocca un braccio. Poi gli fa cenno di abbassarsi e gli parla all'orecchio. 

"Reverendo! Ma è un delitto!".
Don Camillo lo fissò negli occhi:
"Anche tu dunque - ansimò - anche tu mi tradisci?" 

 Peppone, dopo il Tu quoque di don Camillo ["Tu quoque, Brute, fili mi"; "Anche tu, Bruto, figlio mio", è la frase pronunciata da Giulio Cesare mentre veniva assassinato dal suo stesso figlio] , decide di obbedirgli: il prete specifica infatti di non aver fatto una richiesta, ma di aver impartito appunto un ordine. 

Peppone ritorna a casa volando. La moto spinta al massimo. Ma la coscienza è ormai leggera: ora è tempo di agire  e di riparare il torto procurato all'amico.

Torna alle tre del pomeriggio. Peppone è accompagnato non più da Ful, ma dallo Smilzo. In ospedale i due adducono come scusa questioni di eredità da sistemare, in modo da poter passare più agevolmente; Smilzo, che è andato con Peppone, fa la parte del  notaio. Tentano di impedire loro l'accesso, ma passano ugualmente. Entra in camera solo Peppone, però. Dà ordine allo Smilzo di restare di guardia, e di dire che don Camillo si sta confessando. Peppone deve fare tutto da solo. 

Don Camillo apre gli occhi. 

"E allora?", ansimò. 
"Tutto come avete voluto voi", ripose Peppone. "Però è un delitto". 
"Hai paura dunque?", disse don Camillo. 
"No.

Bellissimo questo no. Preciso, pulito. Neppure seguito da un "rispose", "affermò"... Niente. Un no che significa: sono qui, mi assumo la responsabilità di farti del bene. 

A questo punto si svela la medicina ed è pura poesia. E lo so che dire "pura poesia" non è propriamente espressione da critica letteraria (ma qui non si fa dell'accademia!), ma è come un quadro che si completa davanti ai nostri occhi, pennellata dopo pennellata. E all'immagine si aggiungono i profumi e i sapori. I colori. I suoni.

Depose ogni cosa sul comodino e tirò su don Camillo accomodandogli i cuscini sotto la schiena. 
Poi distese in grembo al malato un tovagliolo e vi depose la roba: una micca di pane fresco e un piatto di culatello affettato.
E don Camillo incominciò a mangiare pane e culatello.
Poi Peppone stappò la bottiglia del lambrusco e il malato bevve il lambrusco. Mangiò e bevve lentamente e non era per ghiottoneria, ma per sentire meglio il sapore della sua terra. 
E ogni boccone e ogni sorso gli portavano un'onda di acuta nostalgia: i suoi campi, i suoi filari, il suo fiume, la sua nebbia, il suo cielo. I muggiti delle bestie nella stalla, il picchiettare lontano dei trattori intenti all'aratura, l'ululare della trebbiatrice. 
Tutto questo gli pareva lontano, come appartenesse a un altro mondo: ed erano i sapori falsi delle pappine e delle creme e i veleni delle medicine che gli avevano fatto perdere il contatto con la sua terra. 

Don Camillo pretende poi due boccate di sigaro toscano, mentre Peppone suda dalla paura che rimanga secco. Poi il sacerdote si addormenta.

E, ovviamente, non ci rimane secco. Anzi. 

Dopo tre giorni don Camillo esce dall'ospedale, ma rientra al paese solo dopo due mesi, ristabilitosi completamente. Tre giorni. Come se don Camillo risuscitasse dopo quella morte spirituale, interiore, che lo aveva abbattuto come la trave dell'incipit. 

Quando torna a casa, Ful arriva ad accoglierlo scodinzolante e pulito e Peppone fa notare che non ha più neanche una macchiolina di minio. Pulito il cane e pulito nel cuore il colpevole, i due sono pronti a ricominciare a litigare. 

"Già - rispose don Camillo - lui è a posto. Adesso si tratta di ripulire dal rosso gli altri cani che circolano per il paese".
"Siete guarito completamente - borbottò Peppone.- Anche troppo".

 Un particolare. Peppone torna in ospedale alle tre del pomeriggio; nella liturgia delle ore, equivale all'ora nona; Ful, invece, arrivava all'officina di Peppone alle sei, l'ora delle Lodi. Nella liturgia delle ore, abbiamo sempre l'invocazione: "O Dio, vieni a salvarmi/Signore vieni presto in mio aiuto". E Dio fa in modo che Peppone e don Camillo si salvino reciprocamente, in questo racconto. Peppone prende coscienza di quanto ha fatto e vi pone rimedio. Don Camillo guarisce dalla sua prostrazione, grazie alla fedeltà di Peppone; ma, attraverso la sua malattia, salva spiritualmente l'amico.

 
In questo racconto, densissimo, non troviamo l'espediente del dialogo tra don Camillo e il Crocifisso, ma i messaggi passano anche attraverso gli orari e i giorni. Con la solita delicatezza e il meraviglioso umorismo del nostro caro Giovannino. 

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