Sono le 17. E' quasi buio, ormai. Una pioggerella lieve, come da settimane. Il sottile velo grigio della pianura padana.
In casa, le luci accese. Una tazza di tè. Un lavoro a maglia fermo a metà, un libro da finire, la coperta color zucca sul divano.
Non ho voglia di uscire.
Assaporo la dolce malinconia della giornata in cui cambia l'ora. Mi stupisco sempre di come la mia memoria custodisca le sensazioni e le trattenga per anni. E da anni questa giornata - che per me è quella che segna l'inizio dell'autunno - è sonnolenta, silenziosa, pacata. Non triste, non questo no, ma intima, solo mia, non rivolta altrove.
Prima stavo riflettendo che, detta così, sembra che tutto sia un ciclo sempre uguale. E sì, le stagioni sono cicliche, sensazioni e stati d'animo ritornano uguali negli anni, ma non sono io ad essere uguale. Si cambia anno dopo anno. Si rivedono le priorità. Mi accorgo che i vecchi schemi non funzionano più, che il modello dell'efficienza a tutti i costi non mi interessa. Mi interessa la relazione. Prima di tutto con me stessa. Poi con le persone che mi fanno stare bene, che donano luce a questi giorni bui, e che ne aggiungono a quelli luminosi dell'estate.
Cresciamo con il dogma del "fare", poi a volte ci dimentichiamo di essere.
Così mi è venuta in mente questa poesia di Costantino Kavafis, Per quanto puoi, che ho scelto nella traduzione pubblicata su Avamposto.
PER QUANTO PUOI
E se non puoi fare della vita quel che vuoi,
in questo almeno sforzati,
per quanto puoi: non umiliarla,
nella troppa familiarità con il mondo,
nel viavai della gente, nelle chiacchiere.
Non mortificarla portandola qua e là,
andando per le strade, e non esporla
alle sciocchezze di ogni giorno
delle relazioni, dei vincoli,
fino a renderla estranea, molesta.
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